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L'ULTIMA TEMPESTA
(PROSPERO'S BOOKS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 7 settembre 1991
 
di Peter Greenaway, con John Gielgud, Isabelle Pasco, Michael Clark, Michel Blanc, Erland Josephson, Ute Lemper, Deborah Conway (Gran Bretagna, 1991)
"Questa TEMPESTA appartiene prepotentemente all'autore de IL VENTRE, IL CUOCO, IL LADRO, SUA MOGLIE E L'AMANTE: ma nasce dalla volontà di uno fra i più sublimi attori shakespeariani del nostro tempo, l'ottantasettenne e vigorosissimo John Gielgud di offrirsi per un'ultima volta, e stavolta sullo schermo, il mitico personaggio di Prospero. Quello cioè, che nell'ultimo dei testi shakespeariani propone ad un attore la più vertiginosa delle sortite di scena: il discorso finale del Duca di Milano, esiliato con la figlia Miranda in un'isola sperduta nell'oceano. Ed occupato a concretizzare, grazie ai propri libri ed alla propria fantasia le vendette più atroci sui suoi nemici: autocritica somma, da parte di qualcuno che in materia poteva vantarsi di far stato ("noi siamo della stoffa di cui sono fatti i sogni"...), denuncia di quella finzione, al tempo stesso morale e teatrale, della quale siamo autori e vittime al tempo stesso. Quel modo leggendario -umile e struggente, furbo ed esaltante- di un drammaturgo e di un interprete che chiedono di "essere liberati, ora che gli incantesimi si sono ormai spenti", di rimettere le chiavi di una faccenda fattasi ormai fin troppo scottante nelle mani dello spettatore.

Greenaway - come dubitarne - riserva un trattamento del tutto particolare a Gielgud ed a Shakespeare. Per il primo trasforma il dramma in un monologo, facendogli recitare tutti i ruoli del testo praticamente integrale di La Tempesta: erigendolo così a sommo stratega, illusionista e poeta della propria fantasia, mentre conclude la propria vita sull'isola. Per il secondo. invade con spudorata strabondanza d'invenzioni espressive, con sbalorditivo (e certamente ad alcuni fastidioso) campionario d'improvvisazioni barocche un testo che affonda nella leggerezza e nel raziocinio le sorgenti della propria poesia.

È facile predire che la straripante ricchezza formale di PROSPERO'S BOOKS (scandita dal fluire incessante del monologo di Gielgud, dalle sconfinate scenografie scandagliate insaziabilmente dalla cinepresa, dall'invenzione dei costumi, l'impiego in chiave psicologica del colore o della luce, la tecnologia dell'Alta Definizione che propone mille sdoppiamenti dell'immagine, sovrapposizioni, inserimenti, ritagli) dividerà gli spettatori: per non trovarla gratuita, manierista, occorre (dimenticandosi forse di voler comprendere ad ogni costo il progredire del racconto, il raccordo fra il detto ed il mostrato) iscriverla in una cornice imprescindibile: quella del raziocinio costante, nel quale uno dei pochi registi capaci attualmente di immergersi negli stessi abissi creativi della creatura shakespeariana, inserisce il proprio strapotere figurativo.

Ritroverà allora, lo spettatore attento, la volontà di Greenaway di ancorarsi come sempre a degli imperiosi quanto rigorosi riferimenti storico-stilistici, oltre che pittorici: qui, ovviamente quelli che accompagnavano l'epoca del Duca, i Veronese, Michelangelo, Tiziano. Riproposti non per il piacere della citazione: ma per tradurre quel ricordo culturale che permette di ritrovare nelle insinuazioni delle immagini i rinvii sonori delle parole. E la scansione nella struttura -tipica nel cinema dell'inglese- delle coincidenze aritmetiche, dei numeri, delle serie: come nei 24 libri sui quali si costruisce la vicenda di Prospero, e che aiutano l'autore a sostenere quella dialettica fra l'immagine a la parola che alimenta squisitamente il film."


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